Perché fallisce il cattivismo della destra
In politica la semplificazione degli argomenti paga spesso, ma non sempre. Certamente non funziona quando crea aspettative che l’elettorato può misurare sulla propria pelle facilmente e in qualsiasi momento. Come nel caso delle politiche su crimine e sicurezza, sulle quali il centrodestra ha ricostruito da qualche anno la propria identità e che oggi rischiano di diventare il terreno di un sorprendente smottamento di consensi.
Esaurita all’inizio di questo decennio la spinta liberista e libertaria delle origini, il berlusconismo benevolente e consensuale della nuova stagione ha trovato nella lotta alla criminalità la chiave di una duplice operazione politica. Da un lato per dare spazio alle pulsioni identitarie degli alleati penalizzati dalla forza della leadership del Cavaliere, e dunque l’istinto d’ordine di Alleanza Nazionale e la pregiudiziale anti-immigrazione della Lega, e dall’altro per rinsaldare il legame populistico con il proprio bacino elettorale lungo una linea immediatamente comunicabile e comprensibile. Un’operazione che ha potuto contare sull’arretratezza mostrata su questi stessi temi dal centrosinistra, impantanato da anni in una lettura buonista del piccolo crimine che non solo è rimasta lontana dall’evoluzione di altre sinistre europee ma che non ha neanche corrisposto alle politiche spesso rigorose realizzate da molti dei suoi uomini di governo.
Sta di fatto che, su questo sfondo, il “cattivismo” del centrodestra italiano ha assunto la forma di una campagna estremamente semplificata che ha promesso al paese un livello di rassicurazione impossibile da raggiungere. L’ultima battuta di Berlusconi sui “trentamila soldati da inviare nelle strade” appare avventurosa come un qualsiasi rilancio al buio, deciso tra l’altro senza verificare le autentiche disponibilità delle forze armate, ma coglie alla perfezione lo spirito della retorica sicuritaria del centrodestra. Prima il reato di immigrazione clandestina, poi i militari per le strade, poi ancora l’annuncio di una moltiplicazione dei centri di accoglienza senza concertazione con le popolazioni locali. Messe una dietro l’altra, le iniziative del centrodestra in tema di sicurezza compongono un castello di carte rivolto soprattutto a rassicurare l’opinione pubblica ma esposto ai disastrosi colpi di vento di un qualsiasi stupro di gruppo. Perché è la percezione d’insicurezza, più che i concreti livelli di sicurezza, a rappresentare il centro di attenzione dell’iniziativa politica. Un centro inevitabilmente ideologico e orientato alla rassicurazione totale, bisognoso di un rilancio continuo secondo i ritmi di una campagna elettorale che sembra non finire mai ma nei fatti estremamente vulnerabile ai colpi di coda di una realtà dove il singolo stupro e la singola rapina assumono subito il segno del contrappasso.
La fragilità ideologica della retorica sicuritaria berlusconiana si coglie ancor meglio se messa a confronto con l’esperienza britannica, dove nell’ultimo decennio si è avuta una stretta anti-crimine solo in apparenza analoga a quella italiana. La svolta neolaburista racchiusa dal celeberrimo slogan blairiano “duri sul crimine e sulle cause del crimine” ha avuto certamente una sua componente ideologica, rivolta anche verso i ritardi culturali della sinistra britannica, ma si è poi tradotta in un’iniziativa politica di segno comunitario molto più che repressivo. Dal 1998 in avanti, a partire dal “Crime and disorder act”, l’azione di governo si è orientata a costruire un reticolo di iniziative di prevenzione incardinato sul contenimento dei “comportamenti antisociali” e dunque composto di ammonimenti ai più giovani, responsabilizzazione dei genitori, vigilanza sulle zone a rischio, velocizzazione dei procedimenti giudiziari etc. Il tutto accompagnato dall’aumento del 48 per cento negli investimenti pubblici in tema di sicurezza, compreso un incremento del 10 per cento degli addetti di polizia e del 30 per cento nel numero di detenuti. Anche la politica anticrimine laburista si è rivelata esposta ai contraccolpi di una realtà nella quale si continua a delinquere, da ultimo con l’ondata degli omicidi giovanili commessi con armi da taglio. Ma il senso dell’enorme distanza tra il caso britannico e quello italiano è in due elementi: il tono della critica dei Tories, che in questi anni hanno ripetutamente puntato il dito contro l’eccesso di paternalismo legislativo a cui i governi laburisti avrebbero sacrificato la centralità della repressione; ma soprattutto la diminuzione reale dei fenomeni criminali che, secondo le statistiche pubblicate la scorsa settimana dal Home Office, hanno visto dal 1997 una diminuzione del 39 per cento nei reati e del 40 per cento negli episodi di violenza.
Anche allargando il confronto al contesto più generalmente europeo quello italiano si conferma un problema di percezioni di sicurezza più che di autentica diffusione di reati. L’ultimo rapporto “Burden of crime in the EU”, originariamente promosso dal Consiglio d’Europa e realizzato da un ampio gruppo di istituti di ricerca, colloca l’Italia ai primissimi posti per insicurezza percepita. Nel 2005 quasi la metà dei nostri cittadini dichiarava “probabile” l’eventualità di un furto in casa propria e poco meno del 40 per cento si sentiva in pericolo camminando dopo il tramonto, con un netto incremento rispetto alle rilevazioni della metà degli anni Novanta. L’esatto contrario di quanto descritto nello stesso periodo in paesi come la Gran Bretagna, la Spagna o la Germania, che rispetto all’Italia appaiono assai più sereni sui rischi connessi al crimine. E soprattutto il segno di una difficoltà della nostra politica, stretta com’è tra buonismi e cattivismi di segno essenzialmente ideologico, a rassicurare l’opinione pubblica con politiche meno semplificate ma più efficaci.