La destra che fa anche la sinistra, il PD che ha perso la voce
Se il ministro degli interni
sconfessa le pulsioni emergenziali che sono venute dalla sua stessa parte
politica dopo i fatti di Via Padova, se il ministro dell’agricoltura Zaia apre
un conflitto con il Consiglio di Stato in nome della lotta al mais transgenico,
se ben sei tra governatori e candidati governatori del centrodestra si battono “senza
se e senza ma” contro il ritorno al nucleare, tutto questo non ha a che fare soltanto
con la vigilia delle elezioni regionali. È la destra che veste anche i panni
della sinistra, giocando due parti in commedia e riassumendo al proprio interno
gran parte della dialettica politica nazionale.
D’altra parte può capitare che un
partito o una coalizione siano talmente forti da ospitare dentro i propri
confini un ventaglio molto ampio di posizioni politiche, grazie anche alla
debolezza degli avversari. È quanto accadeva, tra l’altro, alla Democrazia
Cristiana nei suoi tempi migliori. Quando tra la destra e la sinistra
democristiana correva una distanza risolta solo in parte dal carisma della
leadership o dalla negoziazione interna di partite governative. Eppure quello
che sta accadendo in queste settimane alla coalizione di governo non sembra
avere molto in comune con l’esempio della DC. Perché sui temi degli OGM,
dell’immigrazione e soprattutto del nucleare – per citare solo tre punti
dell’agenda politica degli ultimi giorni – le diverse anime del centrodestra
hanno rivelato una divaricazione che si fatica ad interpretare come un punto di
forza.
È pur vero che la debolezza del
Partito democratico ha raggiunto livelli tali da lasciare un vuoto che non può
che essere colmato anche per questa via. Risolta con grande fatica e molte
cicatrici la vicenda delle candidature regionali, il PD di Bersani sembra avere
smarrito la voce dinanzi ai fatti di questi giorni. Il caso Bertolaso è stato
naturalmente accompagnato dalla richiesta di dimissioni del capo della
protezione civile. Gli scontri di Via Padova sono stati naturalmente
l’occasione per denunciare il fallimento delle politiche di integrazione
dell’amministrazione milanese. Ma la gran parte delle energie propriamente
politiche del PD continua ad essere dilapidata in una partita giocata
interamente nella propria metà campo. Che è poi la stessa partita che si
prolunga da tempo senza alcuna novità e senza più appassionare nessuno tra
coloro che per ragioni di militanza o sopravvivenza non siano particolarmente
affezionati alle vicende interne di quel partito.
Si prendano ad esempio le ultime
dichiarazioni di Walter Veltroni, raccolte sabato scorso nell’intervista ad
Aldo Cazzullo del Corriere della Sera. Ancora una volta l’annuncio di non
nutrire “alcuna ambizione personale”, ancora una volta la rivendicazione di una
“atipicità personale” animata da “un rapporto febbrile con la politica ma non
di febbre per il potere”, ancora una volta “la politica come vocazione e non
come mestiere”. Eppure questo saggio tardivo di mimetica veltroniana, nel quale
sono tornati ad affacciarsi persino Bob Kennedy ed Enrico Berlinguer come se
ancora ci trovassimo nei primi anni Novanta, non ha prodotto alcuna reazione di
peso. Bersani ha liquidato l’ex segretario come “una risorsa” e per il resto
silenzio, da sponde sia amiche che nemiche. Il silenzio che ha accompagnato
l’uscita di Paola Binetti e la progressiva diserzione degli esponenti cattolici
dal PD. Lo stesso silenzio con cui la principale forza di opposizione si
prepara a ricevere il verdetto del voto regionale con molti timori per la
propria tenuta strutturale
Eppure per il centrodestra non
sono tutte belle notizie, perché il mutismo del Partito democratico lascia
libero il PdL di rivelare la fragilità della sua aspirazione ad essere un
partito autenticamente nazionale. Un partito che sia quindi capace di tenere
insieme posizioni anche molto distanti e di riassumere sotto un unico tetto
quelle che appaiono come le prime manifestazioni di una possibile frantumazione
post-berlusconiana. E al di là dell’assunzione di temi di sinistra
nell’armamentario politico di settori del PDL, l’opposizione dei governatori di
centrodestra al ritorno al nucleare è qualcosa di più grave di un’ordinaria
manifestazione della celebre sindrome Nimby. C’è anche l’incapacità di quel
partito (e di una leadership dall’apparenza tanto carismatica) a far valere il
peso di una legittima scelta di politica energetica presso i terminali più
forti della rappresentanza popolare, quali sono oggi le presidenze di regione. Perché
se per i cittadini di una nazione il cortile di casa è il Paese intero, per una
forza politica che voglia essere partito nazionale le opzioni strategiche come
quelle energetiche sono un campo di prova che non può essere fallito. A meno di
non volersi preparare, prima o poi, alla moltiplicazione dei cortili politici
come metodo di sopravvivenza di un’intera classe dirigente.
PdL
PD
Veltroni
nucleare
| inviato da
Andrea Romano il 17/2/2010 alle 9:56 | |