La coperta di Obama
Sarebbe un paradosso davvero
curioso se l’immagine di Barack Obama, il fenomeno più innovativo capitato in
sorte al mondo progressista negli ultimi anni, spingesse la sinistra italiana a
riscoprire la propria anima conservatrice. Eppure è quanto rischia di accadere
già oggi, mentre cresce la tentazione di dare nuova dignità ad alcuni dei
nostri vizi più rognosi proiettandoli nello specchio dell’imponente piano di
intervento pubblico predisposto dalla Casa Bianca.
A sinistra ascoltiamo da più
parti l’invito a “imparare da Obama”. Ma cosa esattamente si raccomanda di
ricopiare da quella sua ampia lavagna? Non certo il coraggio della leadership,
né il tratto pragmatico e post-ideologico della sua sfida politica. No, ciò che
queste voci invitano a riscoprire nell’esempio americano sono in realtà le
nostre tare più antiche. L’idea che la mano pubblica sia sempre e comunque la
migliore, la convinzione che il nostro welfare funzioni alla perfezione, la
certezza che la sinistra non abbia alcun futuro se non dentro i suoi confini
più tradizionali. Gli stessi confini che ad uno sguardo anche solo superficiale
appaiono ben più angusti di quelli della sinistra americana e anglosassone,
dove nell’ultimo quindicennio l’articolazione di stagioni e posizioni è stata
straordinariamente più estesa di quella conosciuta in Italia. C’è in questo
l’effetto del celeberrimo provincialismo della sinistra italiana, che dal 1989
in avanti spinge a cercare nella modellistica d’importazione la soluzione ai
dilemmi di cui non si riesce a trovare soluzione in proprio. Ma c’è anche di
più. E in particolare la difficoltà a trovare le parole giuste per raccontare
al proprio mondo le ragioni della crisi economica e la direzione per uscirne.
Le parole trovate da Obama sono in
piena discontinuità con il percorso seguito fin dai primi anni Novanta dal
progressismo statunitense e anglosassone, la cui ispirazione riformatrice è
stata messa in crisi dall’incrinarsi della fiducia nella globalizzazione. Il
ricorso a politiche di forte spesa pubblica è la sanzione finale alla chiusura
della lunga stagione della Terza Via clintoniana e blairiana, proprio là dove
quella stagione aveva mosso i suoi primi passi. Ma è una sanzione che non ha
alcun tratto di restaurazione ideologica di uno “status quo ante”,
presentandosi invece come il tentativo per l’appunto pragmatico e
post-ideologico di ricostruire la fiducia dei ceti medi e dei mercati. I
risultati del piano americano dovranno naturalmente essere valutati nella loro
concretezza e non è detto che di qui a qualche mese il giudizio di quei mercati
e di quei ceti medi sia positivo. Così come non vanno sottovalutati i rischi
del nuovo populismo a cui Obama sembra voler attingere per dare forza alla sua
iniziativa politica. Ma quello che già oggi possiamo dire è che Obama può
permettersi giganteschi livelli di intervento pubblico perché fa affidamento su
una dose altrettanto rilevante di anticorpi sociali, politici e culturali ai
rischi dello statalismo. Quegli anticorpi che uniscono la società americana
nella cultura del mercato, nella centralità del consumatore, nella diffidenza
verso il corporativismo e l’assistenzialismo. Gli stessi anticorpi che la
tradizione ormai conclusa della Terza Via ha saputo mettere in sintonia con i
valori progressisti nel corso di una lunga e fruttuosa esperienza di governo
delle economie più avanzate del pianeta. Non siamo quindi alla riedizione del
New Deal rooseveltiano con il suo contributo al ridisegno dei processi mondiali
di unificazione produttiva, e non solo perché da allora sia trascorso quasi un
secolo.
Possiamo dire lo stesso della
sinistra italiana? Non proprio, e non certo per l’imponderabile differenza di
indole nazionale che ci separa dalla civiltà americana e anglosassone. Dalle
nostre parti il superamento dei vizi del corporativismo e dell’assistenzialismo
è stato appena abbozzato negli anni scorsi, per brevi periodi e sempre sotto la
minaccia di un ritorno all’indietro. Lo stesso vale per la cultura del consumo
e del mercato, i cui germi liberali hanno fatto appena in tempo a fare capolino
nel mare ben più ampio delle certezze dello statalismo. Rispetto dunque ai
pochi e rachitici anticorpi di cui disponiamo, è forte il rischio che la
lettura italiana del nuovo ciclo obamiano si traduca nell’orgogliosa
rivendicazione di quanto avevamo tentato di lasciarci alle spalle. Con la
perdita della preziosa occasione della crisi economica per un atto di coraggio
culturale e politico. E con la sottovalutazione di quanto sta già facendo il
centrodestra tremontiano per rassicurare il paese con gli strumenti simbolici
dell’antimercatismo. Il rischio è naturalmente maggiore per un PD che in queste
settimane sta tentando di recuperare a sinistra i danni inflitti dalla breve
stagione veltroniana. Tentativo legittimo, che tuttavia si sta traducendo nella
riedizione dello stesso mix tra sindacalismo e assistenzialismo che ha avuto i
ben noti e devastanti effetti sulla capacità di governo del centrosinistra.
Il Riformista, 3 marzo 2009
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mercato
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| inviato da
Andrea Romano il 3/3/2009 alle 10:29 | |