Eurosinistra, diagnosi di un coma
Forse c’è un modo per tirarsi su di morale, un piccolo tonico per il nostro sconforto politico. Basta guardare fuori dai confini italiani, farsi un giro nelle discussioni che animano (o più spesso deprimono) la sinistra europea. E pensare che in fondo c’è anche chi sta peggio di noi. Come consolazione non è granché, ma di questi tempi non si butta via niente. In effetti lo scenario che si coglie guardando ai partiti socialisti dell’Europa occidentale è particolarmente cupo. Vecchie leadership che lottano per sopravvivere a sé stesse, debolezza di governo là dove si è al potere e fragilità verso la destra là dove si è opposizione. Soprattutto, la percezione che sia concluso un lungo ciclo politico e culturale senza che vi sia alcun indizio sulla direzione da prendere. Una percezione che proprio in questi giorni risulta particolarmente amplificata, con una crisi della finanza mondiale che chiude definitivamente i conti con la stagione della crescita economica. E mentre dà ossigeno alla nuova destra protezionista e sicuritaria che Tremonti torna a tradurre con “Dio, patria e famiglia”, seppellisce quei germi di ottimismo e fiducia che hanno comunque accompagnato ogni diversa declinazione nazionale della Terza Via.
Guardiamo innanzitutto alla sinistra francese, dove il trauma della sconfitta del 2007 è tutt’altro che superato e dove il crollo della popolarità di Ségolène Royal ha riaperto un’incredibile partita tra gli anziani maggiorenti del partito. Con un groviglio di nuove alleanze tra vecchi elefanti da far impallidire le magagne del nostro Partito democratico. Basti dire che Laurent Fabius e Dominique Strauss-Kahn sono appena tornati ad allearsi, dopo essersi divisi praticamente su tutto nel corso degli ultimi anni, per sostenere la candidatura di Martine Aubry alla guida del partito. Difficile capire come possa essere accaduto che il no-globalismo di ritorno di Fabius, potenziato da generose dosi di antieuropeismo, si sia affiancato al solido riformismo globalista di Strauss-Kahn. Se non guardando ad una scomposizione del campo jospiniano che vede, dall’altra parte, l’ex primo ministro Jospin e il segretario uscente Hollande schierati con il popolare sindaco di Parigi François Delanoe. La vittoria della Aubry sarebbe l’ultima chance di un ritorno politico per Fabius, la cui credibilità è stata quasi cancellata dalle varie giravolte conservatrici degli ultimi anni, mentre Strauss-Kahn avrebbe alla guida del partito una pupilla sulla quale esercitare facilmente il proprio potere di indirizzo (tra l’altro rimanendo a Washington a capo del Fondo Monetario Internazionale).
Intanto Delanoe può far pesare gli alti livelli di consenso conquistati sul campo a Parigi insieme ad una proposta politica sufficientemente vasta da accontentare le nostalgia della vecchia sinistra e un leggero gusto per l’innovazione. La stessa miscela usata nel maggio scorso per lanciare in gran pompa il suo ultimo libro, “De l’audace!”, nel quale auspicava l’innesto di elementi liberali sul ceppo socialista. Tutt’altro che una novità per il resto del mondo, ma evidentemente troppo per i molti esponenti di peso del partito che hanno reagito con scandalo alla contaminazione.
Tra fazioni che si scompongono e si riaggregano intorno alla coppia Aubry-Delanoe, dalla quale con ogni probabilità uscirà il vincitore del prossimo congresso in programma a Reims per metà novembre, Ségolène gioca l’ultima e disperata partita all’insegna della “lotta contro gli apparati”. Martedì sera ha platealmente annunciato di voler “mettere in congelatore” la propria candidatura alla guida del partito, con una mossa esclusivamente tattica. Perché il suo vero, ultimo appuntamento sarà il 27 settembre sulle piazze di Parigi. Con un “Rassemblement de la fraternité” a cui ha convocato i propri sostenitori insieme a cantanti, artisti e tutto quel bel mondo che le è stato accanto nella perduta campagna per le presidenziali senza garantirle poi alcun sostegno all’interno del partito. Una prova di forza dalla quale la Royal uscirà travolta o miracolosamente risanata.
Sulla strada più tradizionale del congresso socialista, nel frattempo, si segnala un’autentica bulimia di documenti politici e programmatici. Al momento sono stati presentati ben 260 contributi tematici e 21 piattaforme politiche, con titoli che spaziano da “Bisogno di sinistra” di Pierre Moscovici (altro jospiniano schierato con Delanoe) a “Urgenza sociale” di Pierre Larrouturou, da “Socialisti, altromondisti, ecologisti” di Franck Pupunat a “La linea chiara” di Gérard Collomb. Facile a dirsi, perché in realtà la linea dei socialisti francesi è tutt’altro che definita. E al momento Delanoe appare il favorito in una corsa congressuale che non ha fatto emergere alcuna significativa innovazione politica e culturale, dominata com’è da una lotta tribale che non ha molto da dire al di fuori dei confini di un partito in crisi.
Se la Francia piange, la Gran Bretagna non ride. Almeno nel caso di Gordon Brown, che da domani affronterà una delle prove più dure della sua carriera politica. Il congresso laburista di Manchester si apre in uno dei momenti peggiori da molti anni a questa parte per l’economia britannica, scossa più di altri paesi europei dal tifone finanziario statunitense oltre che da segni recessivi sempre più evidenti. La sfida alla sua leadership è stata solo provvisoriamente silenziata, con David Miliband che continua a riflettere sull’opportunità di lanciarsi in campo già ora o se attendere il naturale logoramento del Primo Ministro.
Eppure non è detto che l’aria di tormenta non finisca per giovare a Gordon Brown, il quale ha già fiutato il bisogno di rassicurazione sociale che viene dal paese. Soprattutto dopo gli eventi delle ultime settimane, ai quali egli ha reagito da sapiente conoscitore dei tasti più solidi della tradizione laburista. Il messaggio precongressuale che ha indirizzato pochi giorni fa al governo e al partito insisteva ad esempio sulla diversità epocale rispetto al 1997, l’alba lontana e tanto piena di ottimismo del governo New Labour, descrivendo “un mondo di traumatici cambiamenti sociali e demografici dove la gente ha bisogno di una dose maggiore – e non certo minore – di servizi pubblici. Servizi che siano universali anche se non uniformi, orientati dai bisogni reali della popolazione e non da scelte calate dall’alto”. Dunque nuova forza al suo vecchio e sempreverde accento sui servizi pubblici universali, ma anche alla promessa di rassicurazione e giustizia sociale. “ll New Labour deve dare più sicurezza alla vita di tutti, costruendo un paese con giuste regole accanto a giuste opportunità. Perché quando l’imprevisto arriva troppo spesso sono i ricchi e i potenti che possono proteggersi con facilità mentre gli altri scontano i rischi maggiori e godono di opportunità molto minori”.
Non è detto che la scommessa della rassicurazione sociale basti a salvare Brown, la cui credibilità è comunque legata ad una lunga stagione di stabilità finanziaria e crescita economica che appare ormai al tramonto. Quel che è certo è che il campo dei suoi avversari conta (forse) sulla formidabile personalità di David Miliband ma non può vantare alcuna particolare vitalità ideale. Se ne è avuta prova all’ultimo seminario di Policy Network, il think tank guidato da Peter Mandelson dove sono nate alcune delle idee più efficaci del ciclo blairiano. Ma che oggi, riflettendo sabato scorso sugli orizzonti del socialismo liberale, si è ritrovato nelle parole sconfortate dell’ex ministro per l’Europa Roger Liddle: “Il Labour è in crisi in tutti i sondaggi e dobbiamo prendere atto che i problemi strutturali che hanno indebolito il centrosinistra sul continente europeo stanno ormai condizionando anche la politica britannica”. E con questo, sembrano dirci persino i blairiani, addio alla Gran Bretagna isola felice della sinistra europea.