Liberisti senza libertà
Ad un primo sguardo ha tutta
l’apparenza dell’ennesimo paradosso della politica italiana. La stessa forza
politica – il PdL – che intende incarnare la formulazione più ampia della
libertà nel campo dei comportamenti individuali pone al contempo una
sovrabbondanza di limiti e impedimenti alla possibilità di diminuire la
sofferenza legata all’interruzione volontaria di gravidanza. Limiti analoghi a
quelli con cui, nel passato recente, quella stessa forza ha ostacolato
l’adozione di provvedimenti legislativi a tutela delle coppie di fatto o di
misure di autodeterminazione personale dei limiti di cura.
Se invece lo sguardo si fa appena
più largo, la recente discussione sull’introduzione in Italia della pillola
abortiva RU486 diventa l’ultimo test, in ordine di tempo, per misurare la
distanza che ancora separa il centrodestra italiano da alcune delle realtà più
importanti del conservatorismo europeo. Ovvero da quel conservatorismo che proprio
su questi temi ha avviato negli ultimi anni una mutazione rilevante, scegliendo
di qualificarsi come una “destra nuova” dove “il tradizionalismo dei valori è
innervato di aperture alla grammatica dei diritti civili ... e alla volontà di
lasciarsi alle spalle il culto sentimentale del passato e della tradizione,
l’enfasi retorica in materia di patriottismo e religione, le rigidità
ideologiche e i pregiudizi mentali in materia di immigrazione e diritti civili”
(come scrivono Alessandro Campi e Angelo Mellone in “La destra nuova”, Marsilio
2009).
È il caso ad esempio della destra
britannica di David Cameron, che si appresta ad ereditare le spoglie del lungo
ciclo di governo neolaburista recuperando quella tradizione laica e libertaria
che fu di Margaret Thatcher. Se per buona parte dell’ultimo decennio i Tories
sono rimasti prigionieri di un nostalgismo thatcheriano ritagliato soprattutto
sull’antieuropeismo e sullo sciovinismo nazionalista, oltre che sul rifiuto
pregiudiziale della rifondazione del welfare intrapresa dal New Labour, Cameron
ha saputo ritrovare nel bagaglio dimenticato della Lady di Ferro il potere del
concetto di scelta. Come spiegò la stessa Thatcher alla metà del suo
premierato, intervistata dalla BBC e rispondendo con un’unica parola alla
domanda su quale fosse il nucleo di fondo della sua idea di cristianesimo:
“Choice”, disse la signora, spiegando poi che intendeva “la possibilità di
disporre degli strumenti e della conoscenza per scegliere, tra bene e male così
come tra conveniente e non conveniente”. Per molti anni quella rivendicazione
pragmatica e morale del potere di scelta è stata assorbita dai neolaburisti,
che l’hanno resa un cardine delle proprie politiche in campo educativo e
sociale. Solo di recente, e grazie ad un leader conservatore che ha fatto del
superamento del nostalgismo thatcheriano la cifra della riconquista del
consenso, quell’immagine di libertà individuale è tornata nel catalogo dei
conservatori britannici. Da qui la decisione di Cameron di sostenere il Civil
Partnership Act introdotto dai laburisti nel 2005 per tutelare le coppie di
fatto, spingendosi fino a congratularsi pubblicamente nel 2008 con il
parlamentare conservatore Alan Duncan che aveva deciso (primo tra i Tories) di
utilizzare quella norma per formalizzare l’unione con il compagno.
Un’eccezione britannica? Non
proprio, se guardiamo anche al caso spagnolo con tutte le sue polarizzazioni in
tema di diritti civili e identità religiose. Tensioni che tuttavia non hanno
impedito che il leader popolare Mariano Rajoy dichiarasse già nel 2008 che in
caso di un ritorno del suo partito al governo non avrebbe toccato la norma
introdotta da Zapatero sulle coppie omosessuali, limitandosi all’impegno di
cancellare il ricorso alla parola “matrimonio”. Più noto infine il caso di
Sarkozy, che fin dall’inizio del suo mandato ha promosso un’accelerazione
dell’innovazione legislativa in tema di “nuove famiglie” e che da ultimo ha
introdotto una norma sui genitori non naturali che di fatto regolamenta diritti
e doveri anche dei padri e delle madri omosessuali.
Se questo è il quadro della
destra liberale europea, viene da pensare che se anche il Popolo delle Libertà
è diventato con le ultime elezioni la formazione più numerosa nel gruppo PPE a
Strasburgo le sue posizioni in tema di diritti civili appaiono ben distanti da
quelle dei cugini europei. Eppure la responsabilità del ritardo del nostro
centrodestra non può essere cercata solo nel recente complicarsi delle
relazioni tra Silvio Berlusconi e il mondo cattolico, né nella consueta pressione
del Vaticano sull’agenda della politica italiana in tema di famiglia. L’uno e
l’altro elemento hanno evidentemente un peso nel restringere lo spazio dell’area
liberale del centrodestra, ma le radici di quel ritardo affondano nella stessa
parabola ideologica seguita dal berlusconismo in questo suo quindicennio di
vita. O meglio, nella sua progressiva de-ideologizzazione lungo un percorso che
ne ha visto rafforzare l’ampiezza dei consensi mentre si stemperavano i suoi contenuti
identitari.
Con il passare degli anni il
berlusconismo ha saputo trasformarsi in una versione italiana del “catch-all
party”, capace di raccogliere il sostegno di una varietà di gruppi di interesse
percorrendo il doppio binario del rafforzamento della leadership personale e
dell’indebolimento delle sue particolarità ideologiche. Ne hanno fatto certo le
spese anche i fermenti libertari che ne avevano segnato i primi passi sulla
scena politica italiana, alla metà degli anni Novanta. Ma ancor più chiaramente
è stato l’indebolirsi dell’identità politica del berlusconismo a renderlo tanto
permeabile alla forza delle argomentazioni etiche del Vaticano, diversamente da
quanto è accaduto negli stessi anni in altre realtà della destra europea. Se in
Francia e Gran Bretagna il conservatorismo è uscito dalla crisi identitaria
degli anni Novanta ridefinendo la propria cultura politica in senso nuovo e
autonomo, e dunque aprendosi anche ai diritti civili di nuova generazione, in
Italia la costruzione dell’ampia tenda del consenso berlusconiano ha pagato un
prezzo anche alla sua capacità di avere idee chiare e riconoscibili sul grande
tema dei nuovi diritti.
In questo senso il berlusconismo non è stato aiutato
dalla curvatura assunta da una parte della nostra cultura progressista, che scegliendo
la trincea dell’ideologismo laicista ha contribuito a privare il dibattito
pubblico italiano della laicità e della curiosità necessarie ad affrontare la
novità di interrogativi etici che non possono più essere affrontati con le
risposte che eravamo abituati a trovare nei nostri armamentari novecenteschi. Anche
per queste ragioni quella che stiamo vivendo in Italia non può essere semplicemente
interpretata come una stagione neoclericale, ma piuttosto come l’esito di un
indebolimento della politica (anche di quella che vince nelle urne) dinanzi
alla novità di domande che proprio dalla politica richiederebbe una dose
maggiore di autorevolezza e forza di pensiero.