Il voto degli italiani e il liderismo occidentale: due libri
Credere che l’Italia sia un paese
normale è particolarmente difficile, anche armandosi della volontà più tenace.
Eppure il pessimismo della ragione viene talvolta sconfitto non già dall’ottimismo della volontà, come
avrebbe voluto Gramsci, ma più semplicemente dalle scienze sociali. Le quali descrivono
un’Italia attraversata da fenomeni molto simili a quelli che in questi stessi
anni hanno cambiato volto all’Occidente. Persino nel caso della politica, dove
la nostra distanza dalla soglia della “normalità” appare più invalicabile per
tutto il corredo di Cavalieri e post-comunisti che ci portiamo dietro, il
nostro paese è meno insolito di quanto farebbe immaginare l’esperienza quotidiana.
È la tesi convergente di due libri appena usciti, dove il meglio della scienza
politologica italiana fotografa alcune tendenze di medio periodo che hanno coinvolto
l’Italia alla pari di altri paesi occidentali. La tendenza al liderismo,
innanzitutto. O meglio la presenza di singole personalità politiche che
dominano la scena più di quanto non sia mai accaduto nella storia novecentesca
delle democrazie. È inevitabile che in tema di leader e liderismo il pensiero
vada a Silvio Berlusconi e al suo profilo di "eccezione permanente",
rivendicato dallo stesso Cavaliere come la chiave del suo successo o
stigmatizzato dagli avversari come la malattia principale che affligge il
nostro spazio pubblico. La tesi ben argomentata in "Addomesticare il
Principe (Marsilio, pp.206, €15) da Sergio Fabbrini, per molti anni docente a
Trento e a Berkeley e oggi direttore della nuova School of Government della
Luiss, è che il berlusconismo sia in realtà meno eccezionale di quanto non sia
dato pensare, e non certo perché l'autore sia animato da particolari simpatie
verso il centrodestra. Al contrario, secondo Fabbrini "Berlusconi ha
portato il processo di personalizzazione dell'esecutivo a livelli mai raggiunti
in nessuna democrazia europea" anche per il suo "non essere vincolato
da una significativa legge sul conflitto di interessi". Eppure la
personalizzazione berlusconiana della politica è "l'esito di un processo
storico che ha attraversato anche altri paesi" sulla spinta di
trasformazioni strutturali dello spazio politico, tanto in Europa quanto negli
Stati Uniti. In primo luogo l'indebolimento dei partiti, modellati nel
Novecento lungo linee di rappresentanza sostanzialmente stabili (su temi di
classe, fede o etnia) e oggi in difficoltà nell’interpretare nuove appartenenze
collettive estremamente frammentate. Poi il ruolo della televisione, che se
pure "non ha abolito la politica" ne ha modificato la logica, promuovendo
figure nelle quali il pubblico si identifica con sempre minore intermediazione
pedagogica: "la teledemocrazia tende a premiare il leader che asseconda,
non quello che educa. Il leader che assomiglia a 'Noi', non quello che è
diverso da 'Noi'." E infine il contesto internazionale, che sia nel caso
americano che in quello europeo hanno chiesto al potere politico di accentuare la
funzione decisionale a scapito di quella legislativa o di opposizione. Tutto
questo, secondo Fabbrini, ha fatto emergere nella politica occidentale il
dominio di leader che condividono alcune caratteristiche di fondo, tra cui
l'avere percorso strade da outsider fuori dai partiti o contro l'opinione
prevalente al loro interno. Non è un fenomeno transitorio né pregiudizialmente
negativo, a condizione che la democrazia si doti di strumenti in grado di
equilibrare e controllare il valore della decisione politica. Strumenti capaci
di "addomesticare il principe", per l'appunto, equilibrando forza e
controllo. Ma soprattutto lavorando sulla formazione di quelle classi dirigenti
da cui continueranno a uscire leader sempre più forti. Perché "quando in un
paese si affermano leader che non dispongono delle qualità del comando", è
l'ammonimento conclusivo di Fabbrini, "la prima responsabilità è delle
élites che li hanno fatti emergere e non dei cittadini che li hanno
votati".
Se i cittadini non possono essere
colpevolizzati, è altrettanto vero che gli elettori italiani "non sono
animali con tre gambe e otto braccia" secondo l'efficace immagine con cui
Paolo Segatti e Paolo Bellucci introducono "Votare in Italia 1968-2008.
Dall'appartenenza alla scelta" (il Mulino, pp.440, €33). Ovvero "non
rappresentano un caso speciale nel panorama degli elettori europei" mentre
"le teorie che spiegano i comportamenti elettorali in altre democrazie
spiegano anche il comportamento di voto degli italiani". Il volume curato
da Segatti e Bellucci è prezioso non solo perché testimonia la qualità del
lungo lavoro di osservazione dei nostri comportamenti elettorali svolto negli
anni da Itanes (Italian National Election Studies, associazione promossa
dall’Istituto Cattaneo di Bologna) ma anche perché concorre in molti suoi saggi
a consolidare l'idea di una compatibilità della politica italiana (pur con le
sue anomalie) con alcuni processi europei. Ad esempio nella comparsa anche
dalle nostre parti degli "astenuti intermittenti", come li definisce
Dario Tuorto: cittadini non marginali, liberi dai vincoli dei partiti e mobili
nelle scelte, che esprimono una protesta politica decidendo di votare solo se
convinti dall'offerta. Ma soprattutto nel modo in cui gli italiani scelgono di
votare Berlusconi. Che non è determinato, secondo Segatti e Bellucci, solo
"dalle emozioni che suscita in loro la ricomparsa di qualcosa di simile al
Mago Cipolla di Thomas Mann (l’Uomo di Arcore)" ma dall'effetto di
"predisposizioni politiche molto strutturate" a cui il Cavaliere ha
dato una rappresentazione finora convincente. Detta altrimenti: non è una
maledizione quella che spinge la maggioranza degli italiani a votare per Berlusconi,
ma l'assenza fino ad oggi di un'offerta politica più competitiva. E dunque una
causa da paese normale, nonostante tutto.
Berlusconi
politica personale
| inviato da
Andrea Romano il 16/1/2011 alle 16:39 |