Su Mirafiori una politica di commenti a margine
Il risultato di Mirafiori è
destinato ad avere un impatto molto limitato sul frenetico immobilismo della
politica italiana. Così come molto limitato, d’altra parte, è stato il ruolo
che la politica ha svolto sulla trattativa e sulle sue possibili implicazioni per
il mondo economico e le relazioni industriali. Molto rumore di fondo, nessuna
funzione autentica di interpretazione e indirizzo su quanto stava accadendo
nella fabbrica simbolo del sistema industriale italiano. Forse non era
possibile attendersi molto di più da una politica in piena crisi da stagnazione
strategica, sia nella maggioranza che nell’opposizione. Eppure colpisce il
contrasto tra la grande massa di prese di posizione che sono venute in queste
settimane da ogni parte del mondo politico e l’irrilevanza che la politica ha
mostrato in tutta la vicenda. La ragione è nella natura stessa di quelle prese
di posizione. Tutte ben racchiuse dentro la dimensione del commento a margine,
dal sapore quasi giornalistico (absit iniuria verbis) quando non apertamente
rivolte a schiacciare la trattativa di Mirafiori dentro una scatola ideologica
del tutto inadatta alla partita che si svolgeva a Torino.
Se si esclude l’utile intervento
sulla detassazione degli straordinari, il governo ha deciso al contempo di
schierarsi e di non svolgere alcun ruolo di indirizzo o mediazione. La scelta
di parte è stata muscolare nel caso del ministro Sacconi o apertamente
provocatoria nel caso di un Presidente del Consiglio che per un tratto è
sembrato auspicare la delocalizzazione della produzione di Mirafiori.
Un’intenzione evidentemente paradossale, e quindi non del tutto estranea alla
tradizione retorica berlusconiana, con la quale il Cavaliere ha inteso esprimere
un auspicio personale tanto forte quanto abrasivo nei confronti di un mondo di
piccoli e medi produttori che ogni giorno lotta con le unghie e con i denti per
rimanere in Italia.
Dall’opposizione sarebbe stato del
tutto velleitario attendersi più di quanto è concretamente venuto dal Partito
Democratico, che ha espresso un’ampia varietà di posizionamenti personali ma
nessuna linea propriamente politica che non fosse l’invito a rispettare l’esito
del referendum. Un comune denominatore davvero minimo, per un partito che in
teoria dovrebbe formulare la propria futura proposta di governo guardando con
la massima attenzione alle trasformazioni micro e macro di un mondo del lavoro
alle quali spesso reagiscono con maggiore prontezza attori politici di
dimensione più ridotta (come la Lega o Vendola). Ma davvero non si vede come
questa stagione particolarmente confusa nella vita del PD avrebbe potuto
produrre una lettura più articolata di quanto è avvenuto a Mirafiori.
Molti commentatori e nessun
politico, dunque, in un conflitto che si è rivelato ad alto contenuto
ideologico anche perché sia il governo che l’opposizione hanno rinunciato ad
usare le leve di merito di cui disponevano. Oggi il risultato del referendum
fornisce materiale sufficiente a ciascuna parte del parlamento per considerarsi
soddisfatta. Ma certo è che la condizione di bagnomaria nella quale è costretta
da mesi la politica italiana ha contribuito a renderla tanto rumorosa quanto
irrilevante nella partita di Mirafiori, mentre Sergio Marchionne da un lato e
la Fiom dall’altro si trovavano a svolgere una funzione di supplenza ad ampio
raggio anche nei confronti dell’opinione pubblica.