Nostalgia di un mondo peggiore
La nostalgia, si sa, è una perfida canaglia. Che ti prende proprio quando non vuoi, secondo la celebre lezione di Albano e Romina. O che può servire a leggere il mondo dopo la fine della Guerra Fredda all’insegna dell’apocalisse dell’Occidente e del dominio incontrollato della guerra e del mercato, secondo la lezione che Angelo d’Orsi intende consegnare al suo ultimo libro. In realtà è capitato a molti di pensare che dopo l’Ottantanove lo stato del pianeta non sia affatto migliorato, che l’equilibrio bipolare fosse ben più stabile e prevedibile, che la forza solitaria dell’iperpotenza statunitense non eserciti alcuna reale egemonia sulla frantumazione della comunità internazionale. Ma la nostalgia che ha preso d’Orsi per il tempo andato della guerra fredda è di segno ancora diverso, perché il nodo di questo suo lavoro non è la comunità internazionale né lo stato del pianeta ma l’espansione ormai senza freni di un modello unitario di dominio del globo: “La guerra come quinta dietro la quale il mondo unipolare realizza la sua ‘grande trasformazione’, sotto il segno di un Mercato Globale che pretende di estendersi con le sue (non) regole urbi et orbi”.
Dunque il capitalismo come trionfatore politico dell’Ottantanove e la guerra come suo esito permanente. Fin qui d’Orsi potrebbe anche essere preso sul serio, trattandosi della tesi che ha avuto la maggiore diffusione nel pensiero critico antiglobalista. Eppure non si riesce a farlo, pur con la massima concentrazione su queste pagine e con la massima benevolenza verso una tesi da cui chi scrive non potrebbe essere più lontano, perché le modalità della sua argomentazione sono tali da rimanere ben al di sotto di altre e più solide letture che negli ultimi due decenni hanno insistito sugli stessi punti. D’Orsi si distanzia da quelli che sono di fatto i maestri del suo pensiero antiglobalista, tra cui Negri e Stiglitz, per l’abbandono di qualsiasi tentativo di comprendere e spiegare quanto è accaduto e per la scelta di una fenomenologia della catastrofe che si legge (e faticosamente) come un’invettiva carica dei più triti luoghi comuni.
A cominciare dalla sua cifra retorica, con la quale al lettore viene inflitta una galleria di questo tenore: le Twin Towers “che nel volgere di pochi minuti si squagliavano come gelati sotto il sole d’agosto”; le “bandiere (statunitensi) che garrivano al vento della libertà”; “gli american soldiers” afflitti da “ignoranza culturale” e dunque “più brutali ed energici … per il loro disprezzo verso usi, tradizioni, costumi, patrimoni artistici, archeologici, paesaggistici”; i “fiumi di sangue che scorrono copiosi”; Edward Luttwak come “uomo del capitale”, George W. Bush come “sceriffo dell’Old West che cammina tra noi, con la sua stella di latta, tronfio e sicuro di sé” e Noam Chomsky che ovviamente produce “osservazioni pungenti”.
Non è solo una retorica particolarmente infelice a privare di consistenza questo lavoro. Vi è anche un metodo di ragionamento lungo il quale vengono giustapposti fenomeni lontani con una malizia che sa di pregiudizio. Accantonando la rappresentazione inevitabilmente lugubre del profilo della superpotenza statunitense, che d’Orsi racconta come una “macchina poderosa, inarrestabile, invincibile ma paradossalmente fragile” guidata da una “auto-percezione del popolo degli Stati Uniti come ‘popolo eletto’, sinonimo nei fatti dell’Herrenfolk nazista”, colpisce l’insistenza dell’autore su Israele: “avamposto dell’Occidente imperiale e imperialistico”, promotore di “guerre coloniali” e “politiche genocidarie”, ma soprattutto responsabile primario della strategia di attentati kamikaze da cui è stato colpito. Perché, si domanda e si risponde lo stesso d’Orsi, “ci si può forse stupire che preferiscano, quegli uomini, una morte rapida, e magari ‘gloriosa’, facendosi saltare in aria, a quella morte lenta?”.
Anche qui niente di nuovo, per carità. Non sarà d’Orsi il primo né l’ultimo a sostenere che Israele sia causa della sua tentata distruzione. Eppure stupisce il tono ardimentoso con qui queste tesi vengono accostate alla denuncia della cappa di omertà che, secondo l’autore, avrebbe catturato “l’intero ceto intellettuale e giornalistico occidentale”. Una falange di “intellettuali di regime”, con “i suoi silenzi complici e le sue connivenze”, protagonista di una “mobilitazione ideologica senza precedenti” a cui si sono sottratti i pochi eroici resistenti che “osano aprir bocca per dire pane al pane”. Tra cui naturalmente il d’Orsi insieme a Noam Chomsky ed Edward Said.
Nel frattempo, terminata con molta buona volontà la lettura del volume, è inevitabile domandarsi dove sia finita la tesi di partenza. E dunque chiedersi perché, almeno secondo d’Orsi, il mondo prima del 1989 fosse tanto migliore del nostro. Forse perché la sterminata malvagia mercatista e bellicista dell’iperpotenza statunitense era contenuta nella gabbia dell’equilibrio bipolare? Può anche darsi, ma da queste pagine non è dato comprenderlo. E a questo punto anche il lettore più cinico sarà stato preso da un attacco di nostalgia: non per l’epoca della guerra fredda, ma per il rigore di un pensiero critico che talvolta è capace di argomentare meno banalmente le proprie convinzioni.
Angelo d'Orsi “1989. Del come la storia è cambiata, ma in peggio”, Ponte alle Grazie 2009, pp.318, euro 16,00.
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Andrea Romano il 11/10/2009 alle 14:16 | |